Sacchetti ortofrutta bio: i veri vantaggi della compostabilità

Tutti ecologisti con il portafoglio degli altri. Sì perché se nei sondaggi del 2017 condotto da ISPOS 6 italiani su 10 erano ben disposti a far meno dei bioshopper in plastica, gli altri 4 hanno preso voce in capitolo sui social, nei primi giorni del 2018, esprimendo la loro profonda indignazione per l’obbligo di pagamento dei sacchetti biodegradabili. I “leoni da tastiera” sono stati trollati per tutta la settimana dagli altri utenti che fortunatamente hanno più umorismo che sdegno. Sono quindi fiorite le battute riguardo al fantomatico benessere italiano prima di questa nuova stangata governativa.

Cosa ha creato questo prima ondata di animosità virtuale del 2018?

Dal primo gennaio è entrato in vigore il divieto di utilizzo di imballaggi in plastica monouso per i prodotti di ortofrutta, panetteria, salumeria, pescheria e gastronomia per tutti i punti vendita, dal grande centro commerciale al rivenditore locale, voluto da un emendamento del Decreto per il Mezzogiorno. Una scelta governativa strategica per la salvaguarda ambientale nei confronti dell’inquinamento da plastica.

Il pomo della discordia è stato l’obbligo di pagamento da parte del consumatore! Cifre che si aggirano tra i 2 e i 5 centesimi a sacchetto. Nelle peggiori delle ipotesi, si tratta di circa 50 euro all’anno a famiglia, ma per la maggior parte dei sondaggi si tratta di più di una cifra inferiore ai 30€.

Al di là del costo, si tratta comunque di un fondamentale beneficio nella gestione dei rifiuti di casa: d’ora in poi non ci sarà più il dubbio se buttare la pellicola del prosciutto tutta unta di grasso nell’indifferenziato o assieme alla plastica; essendo compostabile può essere conferito nell’organico (o come preferisce qualcuno, nell’umido). Infatti questi imballaggi e sacchetti ultraleggeri dovranno rispettare lo standard internazionale UNI EN 13432 del 2002, normativa intitolata Requisiti per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione e che fa chiarezza in una serie di concetti che girano attorno alla green economy come “biodegradabilità” e “compostabilità”. Questo dubbio ha portato in passato alla produzione di shopper con materiali più facilmente biodegradabili che però non avrebbero dovuto essere associati al compostaggio. Questa norma invece impone dei requisiti perché il materiale sia definibile come compostabile:

  • Degradarsi del 90% dopo 6 mesi che è stato in un ambiente ricco di anidride carbonica;
  • Ridursi per ameno il 90% della sua massa in frammenti di dimensioni inferiori ai 2 millimetri, dopo essere stato a contatto con materiali organici per un periodo massimo di tre mesi;
  • Non avere effetti negativi sul processo di compostaggio;
  • Avere bassa concentrazione dei metalli pesanti additivati al materiale;
  • Avere valori di pH, contenuto salino, concentrazione di solidi volatili, concentrazione di azoto, fosforo, magnesio e potassio entro i limiti stabiliti.

Ovviamente questi valori limite sono a disposizione nel testo della norma. Un esempio di queste incomprensioni è il sacchetto in polietilene (con sigla PE che si trova anche sui prodotti) e riportante il marchio “biodegradabile” e che spesso viene erroneamente usato nel compostaggio. Nella sintesi del polietilene per queste buste, vengono aggiunti degli additivi contenenti metalli pesanti che favoriscono la rottura del materiale in pezzetti che però non si degradano completamente nel giro di poco tempo. I metalli pesanti sono tossici, per cui è necessario che la loro concentrazione nel compost sia limitata per permetterne l’utilizzo come fertilizzante (lo scopo del compostaggio). Quindi “biodegradabile” non implica per forza che sia anche “compostabile”. Per esempio, uno di questi additivi metallici è il cobalto, considerato ecotossico in quanto persistente e bioaccumulativo. Ciò significa che se rilasciato in ambiente, il cobalto aumenta la sua concentrazione sia in ambiente sia negli organismi vegetali ed animali, aumentando di concentrazione lungo la catena alimentare, con effetti cancerogeni, mutagenici e tossici per la riproduzione.

Se consideriamo che dalla sua invenzione attorno agli anni ’50 da parte dell’italiano Giulio Natta – Premio Nobel nel 1963 grazie alla realizzazione del polipropilene e del polietilene, facenti parte della famiglia delle plastiche – il mondo ha prodotto quasi 9 miliardi di tonnellate di plastiche, significa che questa è ancora tutta in circolazione perché i periodi di completa degradazione sono molto più lunghi, minimo 100 anni. È stimato che solo 2 miliardi di tonnellate siano attualmente in uso e delle restanti già scartate, l’80% circa sia finito in ambiente terrestre o marino. La prima bottiglietta di plastica gettata in modo non curante dal finestrino di una macchina o lasciata in spiaggia si trova ancora da qualche parte intossicando, se non uccidendo, qualsiasi animale che inavvertitamente la scambia per cibo. Sono ormai noti i casi di intossicazione da plastica di balene, cetacei, delfini, pesci e uccelli marini, nonché le enormi isole di plastica, i così detti gyres, che si trovano in tutti gli oceani e anche nel Mar Mediterraneo. L’allarme è che nel 2050 negli oceani potrebbe esserci più plastica che pesci, causato dal forte inquinamento e dalla pesca eccessiva. Molte iniziative per ripulire gli oceani sono ormai attive da anni e anche se ci vorranno decenni, se non secoli, lo sforzo non servirà a nulla se non si interviene a monte, sul ciclo di vita del prodotto plastico. Ricordiamoci dunque che seppur biodegradabili e compostabili, i rifiuti vanno conferiti negli appositi raccoglitori (cestini e bidoni): la compostabilità non giustifica l’abbandono dei rifiuti in giro!

È inconfutabile che la plastica sia un materiale che ha rivoluzionato la nostra società, sia nel bene che nel male, e proprio per questo risulta stupido farne un utilizzo monouso, laddove l’innovazione può sostituirla con prodotti compostabili e quindi più compatibili con l’ambiente. Ma anche le vecchie tradizioni possono venirci utili. Chi ci vieta di utilizzare una sporta in tessuto al posto della busta di plastica per la spesa? Per i sacchetti ultraleggeri in questione, però, al momento è di fatto vietato l’utilizzo di sacchetti portati da casa per assicurare le norme sulla sicurezza alimentare; ciò ha portato ad un proseguo della polemica che in effetti ha un fondamento valido. Le alternative però ci sono ed è probabile che nel prossimo futuro tutti i negozianti potranno fornirsi di alternative in carta, per esempio, o come ha fatto Coop Svizzera, mettendo in vendita delle multi-bag lavabili e riutilizzabili.

L’Italia è all’avanguardia europea, assieme alla Francia, nell’attuare i decreti di messa al bando dei prodotti plastici, infatti già dal 2011 sono vietate le buste in plastica mentre in futuro, a partire dal 2019, saranno vietati i bastoncini cotonati non biodegradabili e dal 2020 saranno messe al bando le microplastiche usate in cosmesi in molti prodotti da risciacquo come detersivi, shampoo, creme solari, esfolianti e detergenti, persino dentifrici, con effetti mutagenici in molte specie marine che ne subiscono grandi concentrazioni derivanti dagli scarichi idrici.

Non solo. Il 16 gennaio, salvo deroghe, la Commissione Europea varerà un nuovo pacchetto di proposte e misure ad hoc contro l’uso di tutti gli imballaggi in plastica da realizzare probabilmente entro il 2030, anno di arrivo per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU. In questo caso di stratta di raggiungere il Goal 12 “Garantire modelli sostenibili di produzione e consumo” e il Goal 14 “Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine”.

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